Matteo Flora ci ha subito messi in guardia: i nostri smartphone sono miniere di dati e ricordi che, una volta “backuppati” online, diventano merce nel “capitalismo della sorveglianza”. Il problema è che la rete è una “piazza globale” che, a differenza della memoria umana, non dimentica. Flora si è concentrato sui pericoli delle immagini non consensuali (NCP)—come il revenge porn (più su donne e comunità LGBTQ+) e la sextortion (più su uomini manager, anche anziani). Ha condannato con forza il victim blaming, ribadendo che la domanda giusta non è “perché hai mandato la fotografia”, ma “perché quel bastardo l’ha ricondivisa?”. Ha sottolineato che subire la diffusione di queste foto non è un semplice “imbarazzo”, ma un trauma assimilabile al disturbo post-traumatico da stress, capace di portare a pensieri suicidi. La situazione è aggravata dai deepfake che, grazie all’Intelligenza Artificiale, permettono la sessualizzazione forzata partendo da qualsiasi foto di profilo. Flora è scettico sulle “soluzioni tecnologiche” come l’ID obbligatorio per i siti per adulti, definendolo soluzionismo tecnologico. Tali soluzioni non solo falliscono (come già visto in Inghilterra e Spagna) ma creano enormi e pericolose basi dati di controllo. La vera battaglia, secondo lui, è culturale e sociale: eliminare lo stigma verso le vittime e stigmatizzare invece l’83% dei carnefici che ricondividerebbe quei contenuti.
Cerchiamo risposte facili (tecnologiche) a un problema complesso (sociale), ma l’unica vera difesa è un cambio di cultura che condanni chi diffonde, non chi confida.






















